Sette errori da evitare nel tuo manoscritto
Se non vuoi che al lettore venga un attacco di orticaria
Sette sono i nani, gli anni in Tibet 🗻 di Brad Pitt, i vizi capitali, i re di Roma, i colori dell’arcobaleno 🌈, i giorni della settimana, le vite proverbiali di un gatto 🐈, ma anche gli errori più frequenti che gli autori rischiano di commettere quando presentano il loro manoscritto a una casa editrice o a un’agenzia letteraria.
Qui ancora Giulia 🙋 , la lettrice editoriale, e oggi voglio parlarti dei problemi più comuni e indisponenti che gli addetti ai lavori riscontrano quando si trovano davanti a un manoscritto. Per farlo, ho pescato alcune delle carte dal nuovo mazzo che noi di Sefirot (un paio di mesi con loro e già sono diventata aziendalista ☺️) abbiamo strutturato in collaborazione con Dalia Oggero di Einaudi. Lo strumento creativo si chiama Edito e nasce proprio per aiutare l’autore a revisionare il suo testo in autonomia raggiungendo – quindi – più possibilità di essere preso in considerazione per la pubblicazione.
Bene, cominciamo 🎬 :
🔎 Show vs Tell - hai raccontato troppo?
La storia di mostrare di più e dire di meno, sicuramente, l’hai già sentita. Tuttavia non posso esimermi dal riportarla perché l’approccio immersivo 🔦, cioè quello che permette alle persone di immergersi, appunto, nel mondo del protagonista attraverso le sue azioni, è sempre bramato da lettori ed editor. In poche parole parliamo della teoria d’ispirazione cinematografica Show don’t tell, secondo la quale è molto più efficace mostrare gesti e dialoghi tra i personaggi, piuttosto che dire tutto tramite discorso indiretto. Non ce n’è, il filtro del pensiero del protagonista convince meno rispetto ai suoi movimenti in scena. Devo ammettere che quando leggo un manoscritto do molta importanza a questo aspetto perché se un autore è in grado di portarmi in un universo narrativo ben descritto, tutte le altre mancanze sono lavorabili. Una penna immersiva ✍🏻 è una penna che vale la pena di coltivare. Ma facciamo un esempio, immaginiamo che Ludovica abbia appena scoperto che il suo fidanzato la tradisce. Sono insieme in cucina e stanno parlando del fatto. Lei è in piedi davanti ai fornelli e lui si muove avanti e indietro lungo il perimetro della stanza. Ecco, nel descrivere una situazione del genere lo scrittore non può limitarsi a dire: Ludovica è arrabbiata, oppure Ludovica prova rancore. Per osservare da vicino la rabbia della protagonista, il lettore deve frequentare i suoi gesti. Ludovica chiude i pugni e li batte sul tavolo, il sudore dalla fronte le corre lungo le tempie. Gli urla: «Pezzo di merda», poi cade sulle ginocchia e rimane ferma qualche istante. La seconda opzione, sarai d’accordo con me, è sicuramente più efficace e trasportante 🌪
Questo non significa eliminare tutte le parti un po’ tell, alcune volte è funzionale anche accorciare le scene meno fondamentali. L’importante è sempre inserirle in un contesto prevalentemente show.
🔎 Problemi di punto di vista - il punto di vista slitta? Cerca gli errori di prospettiva
Tanto facile a dirsi quanto complicatissimo da mettere in pratica. Nella mia esperienza, infatti, mi capita molto spesso di vedere autori che inciampano sulla prospettiva perché fanno fatica a tenere la lunghezza del romanzo. Anche a me, da autrice, succede di rileggere pezzi e avere dubbi sulla congruenza tra le angolazioni che ho scelto. Non importa a che tipo di narratore hai affidato il racconto, la cosa fondamentale è riconoscerlo sempre, poter dire: è inequivocabilmente il suo punto di vista. In questo frangente si parla di voce 🗣 , d’identità. Se il narratore che hai scelto, per esempio, è una bambina di sette anni 👧, dovrai sempre ricordarti che non potrà guardare quello che ha intorno con gli occhi di un'adulta e anche le metafore dovranno essere alla sua portata. Il mare, per lei, potrà essere agitato o fermo, non inquieto o turbolento. Poniamo il caso, invece, che il narratore sia Giovanni, una prima persona e racconti la storia attraverso se stesso. Quando il ragazzo discuterà con un amico, lui potrà descrivere l'esteriorità della scena, ma non potrà cambiare rotta e avere le stesse informazioni di una terza persona onnisciente. – Cazzo fai? – mi dice Marco. È incazzato perché mi sono fatto la sua ragazza e adesso lo guardo come se fossi un santo. (Come fa Giovanni a sapere che Marco è incazzato?). Potrà invece dire che a lui sembra arrabbiato dalla la posizione che assume o dalle vene rincarate sul suo viso. Per cercare di risolvere il problema legato alla lunga tenuta della credibilità su tutta la misura del romanzo, tiro in ballo la teoria della pistola di Cechov 🎭. Secondo lui, infatti, ogni oggetto descritto nella scena dovrà tornare utile al personaggio in un secondo momento. La pistola raccontata nel primo capitolo, prima o poi, dovrà sparare, altrimenti non ha valore narrativo. Lo stesso ragionamento, si può applicare per rendere inossidabile il punto di vista. Ogni parola del narratore deve essere orientata alla prospettiva complessiva dell’opera. Quanto si dice al capitolo 3 è funzionale per il finale del romanzo? Fa parte della catena di eventi? Prova a porti queste domande.❓
🔎 Clichés & co. - Attenzione a metafore deboli, gerundi, corsivi, forme trite
I capelli biondo grano 🌾 , teso come una corda di violino 🎻 ; secco come un palo; acida come lo yogurt; caldo come il sole a primavera ☀️; e chi più ne ha più ne metta (per l’appunto!). Sono tutte frasi che hanno perso la loro forza comunicativa. Cerca di descrivere le sensazioni dei personaggi scavando più a fondo, magari scoprirai che al tuo protagonista i capelli biondi di quella ragazza non ricordano il grano ma la sfumatura dell’abito che un giorno ha indossato sua madre. Se così fosse, ad esempio, non ti limiteresti a descrivere un colore, ma indagheresti anche la nostalgia che il personaggio prova nel ricordare sua madre. Per quanto riguarda gerundi e corsivi, non sono da demonizzare ma da dosare tenendo a mente che una frase sciolta è sempre più efficace di una frase chiusa: disse Giuseppe mentre guardava il telefono è più armonico e letterario di disse Giuseppe guardando il telefono ☎️.
🔎 Aggettivi e avverbi - Accoppiate aggettivo-sostantivo trite, avverbi inutili, automatismi
Anche in questo caso, less is more ✂️. Bisogna tenere presente (lo sto dicendo anche a me stessa) che troppi aggettivi o avverbi spesso tolgono energia alle frasi invece di rinvigorirle, e farle splendere in tutta la loro semplicità. Quando penso a questa questione mi viene sempre in mente il racconto più breve nella storia della letteratura. A mio avviso anche uno tra i più forti.. For sale: baby shoes, never worn, scriveva Hemingway per dimostrare che era possibile terminare un romanzo in sei parole. Non ci sono aggettivi, non ci sono avverbi, c’è solo un grande esempio di potenza. Così la sua teoria dell’iceberg ❄️, secondo la quale uno scrittore dovrebbe mostrare nelle pagine solo la punta delle dinamiche narrative e lasciare al lettore la possibilità di interpretare tutto ciò che della storia è rimasto sommerso, ha funzionato accendendo la miccia 💥 di una vera e propria tendenza letteraria. Quando ho letto per la prima volta questa frase, era durante una lezione alla scuola Holden. Ricordo di essermi commossa davanti a tutta la classe mentre il maestro la proiettava sul muro. La sensazione era quella di due mani che mi afferravano lo stomaco e lo accartocciavano. La letteratura deve fare questo: contorcere, scuotere, emozionare. A quel punto non ci sono regole editoriali che tengano - lo dimostra proprio Hemingway con il suo esperimento inedito. «Impossibile!», avranno sicuramente detto i lettori e gli editor del tempo, eppure... Questo vale a dire che posso stare qui a dare consigli sicuramente utili, perché i romanzi sono anche prodotti editoriali, però la cosa importante rimane il cuore ❤️ Devi sempre mettercelo tutto, senza risparmiarne nemmeno un pezzetto. (Fine del piccolo intervallo emotivo, maledetto Ernest!).
🔎 Didascalie dei dialoghi - Che verbi usi? Ci sono azioni ripetute?
«Non sei a teatro, non sei Rossella O’Hara e non predichi sermoni 🙏 Falla facile, falla vera», questo è una specie di mantra che ripeto a me stessa quando mi accorgo che i miei personaggi si lanciano in dialoghi ampollosi e poco credibili, ed è anche il consiglio che voglio dare a te. Immagina che i tuoi protagonisti siano dotati di un’identità reale, lascia che parlino e si comportino di conseguenza. Come parlano tua madre? tuo padre? tua nonna? i tuoi amici? Prendili pure da spunto per costruire i personaggi del tuo libro. Quando un dialogo non mi torna, io lo leggo ad alta voce per capire se funziona. Ricordo un giorno di aver incontrato in un manoscritto un personaggio anziano 👴🏼, di un piccolo paese, che parlava come un professore universitario. Eppure era un pastore che per tutta la vita aveva badato al suo gregge 🐑. Non aveva studiato e aveva sempre abitato nell’entroterra sardo. Possibile che le sue frasi non contenessero nemmeno una sbavatura? una forma gergale? Una parola in dialetto?Perché non mi fai sentire la terra, l’odore di pecora, la voce roca? Ho scritto all’autore un po’ piccata. Mesi dopo aprendo la casella mail l’ho conosciuto davvero quel pastore. Mario era lì, finalmente vivo tra le pagine 📃
Per quanto riguarda le ambientazioni e la gestualità, se puoi evita di farli svegliare dieci volte in un capitolo con la luce che filtra dalle tapparelle e seguili in più segmenti di quotidianità. Cambia azioni e movimenti, crea dinamismo.
🔎 Aperture e chiusure - Inizio e fine di capitolo funzionano? E l'incipit?
Partiamo dal presupposto che il lettore, quello tecnico in prima battuta e il pubblico in seconda, decide se continuare a leggerti pagina dopo pagina. Alla fine di ogni capitolo, quindi, devi offrirgli la possibilità di pensare che stia facendo la scelta giusta. In base al genere del tuo romanzo, cerca di ricavare un colpo di scena o un momento topico da inserire tra un capitolo e l’altro (prendi spunto da Netflix che ci sa fare 😉) e invita le tue persone a proseguire. L’incipit è quando qualcosa comincia a succedere; è l’inizio di un movimento 🏃🏻♀️, di una storia. Non si tratta di una bella frase costruita ad hoc per impressionare il lettore (quando sento che l’autore ha infiocchettato il suo incipit mi innervosisco tantissimo), ma della porta d’ingresso al mondo 🌎 che vuoi raccontare. Per questo, il suggerimento che posso darti è quello che ho ricevuto da parte di una scrittrice: gli incipit più efficaci sono quelli che l’autore scrive alla fine, quando conosce perfettamente il suo universo narrativo.
Per mostrarti questa teoria mi appello all’incipit di Lolita, uno dei più belli di sempre. Fa così: Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi. Mio peccato, anima mia. Lo-li-ta: la punta della lingua compie un breve viaggio di tre passi sul palato per andare a bussare, al terzo, contro i denti. Lo-li-ta. Era Lo, null'altro che Lo, al mattino, diritta nella sua statura di un metro e cinquantotto, con un calzino soltanto. Era Lola in pantaloni. Era Dolly a scuola. Era Dolores sulla linea punteggiata dei documenti. Ma nelle mie braccia fu sempre Lolita.
Secondo te, Nabokov, ha cominciato a scrivere con queste parole? Non potrà di certo venire qui a contrastarmi, e gli chiedo perdono se sono in errore. Ma sono certa che questo inizio sia arrivato dopo aver stretto un rapporto con Lolita, dopo aver preso fuoco 🔥
🔎 Finale - è quello giusto? è coerente con il cuore del libro?
Last but non least, dicono nei paesi anglofoni e hanno ragione. Infatti, insieme all’incipit, il finale è una delle parti più importanti di un romanzo e anche, almeno per me, la più difficile da scrivere. Come vi avevo già raccontato, io sto lavorando all’ultimo capitolo del mio libro e questo mi sembra il momento più faticoso 🏋🏻 di tutto il percorso. Le ragioni sono due, la prima è che devo far quadrare pagine su pagine di conti, e la seconda che – tanto per usare un bel cliché – tutti i nodi vengono al pettine. Io sto cercando di interrogarmi sul senso del mio romanzo, sono davvero riuscita a esprimerlo? E adesso, come chiudere il cerchio? Personalmente, e questa è davvero una questione di gusto individuale, a me piacciono molto i finali (nei film come nei libri) che in qualche modo ripristinano la situazione iniziale con i dovuti cambiamenti apportati nel corso della storia 🔘. Il personaggio si è evoluto, ha nel bagaglio 🎒 un’importante esperienza di vita e può tornare da dove è partito con nuove consapevolezze. A questo proposito mi salta sempre in mente l’ultima scena de Il Signore degli anelli, il ritorno del Re. C’è Sam che entra a casa alla fine del suo lungo viaggio. «Sono tornato», dice e la porta si chiude dietro di lui. Riesco a percepire profondamente l’intimità di quel gesto e la verità di quelle parole.
Chiaramente l’epilogo non può essere lo stesso per tutte le narrazioni, l’importante è dipanare le questioni iniziali dei personaggi, farle esplodere 💣 e – in qualche modo – portarle a compimento.
Siamo arrivati tematicamente anche al nostro di finale, perciò vi do appuntamento alla prossima puntata: parleremo di storytelling applicato alla narrativa. Ci concentreremo su come costruire 🔨 una buona storia partendo dall’idea. Mi metto subito a studiare i nuovi contenuti, ché la volontà è una delle sette virtù!
Grazie per esserci e a presto 💛 Giulia